mercoledì 10 luglio 2013

Dentro i miei vuoti: Tramonto tempestoso




Dentro i miei vuoti' é un racconto a puntate ispirato alla omonima canzone dei Subsonica. É un'opera di fantasia. Riferimenti a fatti o persone sono puramente casuali

Kennie guarda il tramonto dal balcone dell'appartamento della nonna, a Cavezzo.
Vigoroso, vivido, passa con nonchalance davanti ai suoi chiari e pensierosi occhi.
Ricorda ancora quando, tanti anni prima, da piccola prendeva la reflex del padre e si metteva a fotografare quei tramonti.
”Diventerai una grande fotografa” le diceva mentre le accarezzava vigoroso la sua testolina dorata.

Pochi anni dopo in lei si animò una grande voglia di indagare, di scoprire la verità, di raccontare le ingiustizie che viveva,  che fotografare non le bastò più e cominciò a scrivere.
Dai giornalini scolastici, ai veri e propri articoli per il gazzettino studentesco alle superiori, per continuare studiando scienze della comunicazione all'università.
Stage dopo stage, riuscì a distinguersi e ad ottenere un posto all'interno del giornale provinciale, confezionando articoli di cultura e spettacoli, ma alle volte dava una mano al suo collega di cronaca nera, Adrian, più grande di lei di una decina di anni, coetaneo e amico d'infanzia del fratello, scomparso senza lasciare tracce da anni. Dieci anni. Fu il motivo che la spinse a diventare giornalista, nel tentativo di approfondire la scomparsa del fratello e la ancora più dolorosa e misteriosa morte della madre, avvenuta quando era appena undicenne e di cui non ricorda nulla se non ciò che le diceva il padre ma che non l'ha mai convinta. Adrian gli é sempre stata vicina, come fosse il fratello, aiutandola anche nella sua inclinazione giornalistica.


Kennie poggia le braccia sulla vecchia ringhiera del balcone.
Guarda in basso e le sovviene il ricordo lontano di una sensazione fisica di un'attrazione al vuoto che aveva avuto anni prima. Era persino arrivata a pensare che aveva guardato il nulla negli occhi e viceversa, in una sorta di attrazione fatale che la stava scuotendo. Si strinse e pensò di essere felice di essere ancora li a raccontarselo.

Mentre in silenzio i suoi pensieri chiacchericciano come una comare pettegola indesiderata che non vuole proprio tacere, l'aria si agita violentemente, passa una tromba d'aria in lontananza.
Kennie la guarda avvicinarsi, si tiene forte con le mani alla ringhiera ma non demorde dal rimanere li e a continuare a guardare che succede. Vuole guardare negli occhi il tornado.
Il vortice ballerino si allontana con leggiadria come nulla fosse.
Anche lei come nulla fosse lascia la presa decisa ai ferri e riposa le braccia sulla ringhiera.
Guarda di nuovo su, il cielo.


La tempesta ha appena ridestato i colori che si sono accesi in uno spettacolo mozzafiato. 
Si dà il meglio, o il peggio, in situazioni estreme. Le nuvole lo sanno bene, e passano cariche e scure, per sciorinare fiumi di parole acquose. 
Fluttuano incorniciando il tramonto, leggiadri batuffoli, come se qualche mano sapiente avesse potuto montarle a neve creando delle noci spumose che ondeggiano felici nei colori e nell'aria, incuranti  delle storie e dei dolori di coloro che stanno sotto, laggiù, indaffarati con la vita, talmente presi e oppressi dall'esistenza che non fanno caso a questa meraviglia abbagliante.

Alcuni però volgono lo sguardo all'insù, speranzoso, come in preghiera silente del buio verso la luce.

"Loro, le morbide nuvole, non lo sanno, non hanno colpa dello schifo che sta sotto!" pensa arrabbiata.
"Non hanno colpa se la terra balla imitando il vento, volendo correre con esso, trascinandosi sia vite, case, edifici..."

Nonostante lei abbia odiato quel paese, non è rimasta indifferente quando é passata per la via centrale e ha visto un nuovo paesaggio che quasi non riconosceva.
Era abituata a certi spazi in cui l'occhio non andava oltre, fermandosi ai massicci edifici che bloccavano anche il sole e facevano ombra. Edifici massicci, ciò che si pensava fossero. Quando la realtá venne'smossa' poi rivelò tutt'altro...

Lo sguardo ora poteva andare oltre. Approfondiva, in squarci profondi. Ferite profonde per chi come lei conosceva bene quei posti. Per chi come lei ci aveva passato l'infanzia e l'adolescenza.
Il bar della domenica, la cartoleria, la fermata del bus. Luoghi di incontri e scontri, tutto demolito. Ora é solo una piana che lascia spazio al sole e agli occhi che ora vedono spazi a 500 mt di distanza, contro i 5 a cui erano abituati a fermarsi.

Senza rendersene conto immersa nei suoi turbamenti, è passata già più di mezzora.

Il sole che appena appena spunta da uno spiraglio, dona sfumature molteplici che cambiano col tempo e con la consistenza della nube. Il vento sembra asciugare le sue lacrime insivibili. 
Lacrime che si sono bloccate dentro e si aggiungono alle altre pietrificate. Le lacrime. Dentro. Pietrificate. Pezzi di pietra che pesano sempre di più sul cuore. 
Il volto é fermo in un'espressione indescrivibile, tra il serio, solenne condita con un filo di incazzatura e determinazione.
La sua mente continua a parlarle come fosse una vecchia pettegola che continua a blaterare e che lei sembra non ascoltare.


Starnutisce
Le sembra di aver starnutito pezzi di cervello dal naso, tanto è la forza e il dolore alla nuca. Si sente quasi male. Come se mancasse qualcosa. 
La sua pettegola smette improvvisamente di blaterare. Si ferma. 
”Stai bene?" chiede. Non la ascolta. Si siede e continua a guardare il tramonto.

Il sole piano piano si sta ritirando.
I batuffoli, che prima si stagliavano baldanzosamente dal fondo con sfumature pesca accesa, passano a un grigio/azzurrino cupo e hanno rallentato il passo.
Kennie pensa che hanno lo stesso un grande fascino anche coi riflessi smorzati.
Le torna in mente quando la madre dipingeva cieli. Quando fotografava da piccola. I luoghi del sua infanzia. Suo nonno, caporalmaggiore, la sua moto su cui sfrecciavano veloci, la macchina massiccia e bizzarra che faceva finta di guidare.
Nel mentre è immersa in questi pensieri, una voce la fa tornare al presente.

”oh....Chiara...Tutto bene??”
Sentire il mio nome reale é raro quanto bello, sopratutto se a pronunciarlo è la soave vocina di mia zia.
”E' da un'ora che sei sparita e ti ritrovo qui cosí. Mi hai fatto venire un colpo! Tutto bene?”
Annuisco. Non ho proprio voglia di parlare.
Ho una fitta a sinistra lancinante. Il cuore mi pompa lacrime che si bloccano, si pietrificano, non riescono a uscire. Vorrei, giuro, vorrei, non riesco. I miei luoghi interiori sono massicci, non fanno indugiare oltre né sguardi, né emozioni.

Devo completare questo quadro. Mancano troppi tasselli.


Devo capire che é successo.
Costi quel che costi.

Il vuoto mi guarda
Il vuoto mi chiama nei miei sogni
Mi chiama. Insiste.
Non riesco a resistere.
Ha assorbito l'arcobaleno
Anestetizzato da fiori e spine
Il mio strazio pulsante giace esanime
Forse urla. Forse non più.
Il vuoto mi abbraccia
Mi porta a sé 
Sto annegando nel nulla
sgocciolando sangue incolore

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